Vite - Vitis vinifera

Generalità

La vite europea (Vitis vinifera sativa) appartiene al genere Vitis, famiglia delle Vitaceae, che è distinto in due sottogeneri: Muscadinia (comprendente le specie Vitis rotundifolia, Vitis munsoniana e Vitis popenoei) ed Euvitis, al quale appartengono le viti americane (Vitis riparia, Vitis rupestris, Vitis berlandieri e Vitis champini) che si utilizzano come portainnesti, le viti asiatiche orientali ed eurasiatiche, comprendenti la Vitis vinifera.

La Vitis vinifera è la specie in assoluto più importante per le caratteristiche qualitative dei suoi frutti, presenta inoltre due sottospecie quali V. vinifera silvestris (spontanea in Europa da millenni)

e V. vinifera sativa, specie di vite più coltivata al mondo.

L’origine della vite è molto più antica di quella della diffusione della viticoltura. La storia della pianta ha oltre 100 milioni di anni e si è evoluta sotto forma di molte specie la maggior parte delle quali non è sopravvissuta alle ere preistoriche.

Con la scelta, ovvero la selezione delle varietà, ha origine la viticoltura che ha circa 10000 anni di storia. Essa ha inizio dopo l’ultima glaciazione (Glaciazione di Wurm) e si diffonde nella cosiddetta Mezzaluna fertile (zona compresa dal Caucaso verso l’Egitto), quindi verso il Mediterraneo e poi in Europa settentrionale.

La vite, insieme a orzo, grano, miglio, lino e cotone è una delle specie coltivate per prime dalle

antiche civiltà e, successivamente,da Sumeri, Assiri, Babilonesi ed Egiziani. L’utilizzo della vite nel corso del tempo si è evoluto da bacca commestibile a prodotto da vinificare.

In Italia la diffusione della vite si è avuta nel sud e nelle isole ad opera dei Greci e nel centro-nord ad opera degli Etruschi.

I grandi viaggi che caratterizzarono la fine del XV e l’inizio del XVI secolo consentirono la diffusione del materiale vegetale da e verso le Americhe, ed in seguito l’insorgere di parassiti pericolosi (fillossera, oidio, peronospora) in Europa; i viaggi oltre oceano, inoltre, consentirono di colonizzare con la vite anche altri continenti.

Oggi i principali paesi produttori di uva da vino sono Italia, Francia, Spagna, Germania e Grecia, mentre l’uva da tavola è coltivata in Italia, Russia, Turchia, Grecia, Spagna e Bulgaria.

Vite con uva

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Caratteristiche botaniche

La vite è un arbusto rampicante con portamento naturale irregolare, generalmente determinato dalla forma di allevamento; è una specie caducifoglia che entra in riposo vegetativo durante l’inverno.

Di seguito vengono brevemente illustrate la morfologia delle strutture legnose dell’arbusto ed i suoi organi vegetativi e riproduttivi.

Nelle viti nate da seme la radice è fittonante, ma ordinariamente, poiché la propagazione è eseguita per parti vegetative (talea innestata), le radici sono esclusivamente fascicolate, interessando principalmente lo strato di terreno compreso tra i 30 e gli 80 cm dalla superficie; qualora il suolo lo consenta esse possono approfondirsi per diversi metri in profondità sopravvivendo a periodi prolungati di siccità.

Il tronco, detto anche fusto o ceppo, è il supporto della pianta e può essere più o meno sviluppato a seconda della forma di allevamento. Sono necessari quasi sempre dei supporti per la sua strutturazione, infatti la vite è una liana che mantiene sempre un certo grado di elasticità. Il ceppo è rivestito da una corteccia, il ritidoma, che nella Vitis vinifera si può staccare a strisce longitudinali. Sul fusto si inseriscono le branche (rami di più anni).

Le branche sono strutture legnose che hanno la stessa età del tronco o un anno di meno rispetto ad esso e si dipartono dallo stesso. Sono costituite da legno vecchio con più di due anni di età. Quando si tratta di branche di grandi dimensioni poste sull’orizzontale si parla di cordoni permanenti, sui quali si inseriscono direttamente i rami di un anno, detti anche tralci, capi a frutto o sarmenti.

Il capo a frutto è una struttura a lignificazione pressocchè completa (il tralcio ancora verde, non lignificato e con attaccate le foglie è detto germoglio) e, in fase di riposo vegetativo, costituita da una serie di internodi e di nodi; è poco ramificato ma può allungarsi per qualche metro, nella parte iniziale gli internodi sono corti, mentre risultano più distanziati tra loro in quella intermedia e finale.

Le gemme si distinguono in ibernanti o dormienti, pronte e latenti. Le prime si trovano sul nodo del tralcio e, a partire dalla ripresa vegetativa primaverile, daranno vita alle strutture produttive; le gemme dormienti si differenziano la primavera precedente e contengono il germoglio già preformato. Le gemme latenti sono inserite sul fusto o sulle branche e danno vita a germogli poco produttivi, possono aprirsi dopo un numero indefinito di anni. Su un germoglio in crescita, in prossimità delle gemme ibernanti, le quali si schiuderanno l’anno successivo, ci sono le gemme pronte che originano germogli sterili o poco produttivi nello stesso anno della ripresa vegetativa. Tutte le gemme della vite sono miste, con formazione di germogli ed infiorescenze.

Le foglie, dotate di un lungo picciolo, sono grandi e palmate, con lembo intero o suddiviso in 3-5 lobi, di colore verde più o meno intenso a seconda della varietà, mentre la pagina inferiore è più chiara e può essere ricoperta di peli. Su un germoglio le foglie sono posizionate in prossimità dei nodi, in maniera alterna e distica (una foglia è nella stessa posizione ogni 2 nodi).

L’infiorescenza della vite è un grappolo composto inserito sul nodo dalla parte opposta della foglia. Generalmente su un germoglio ci sono da 1 a 3 grappoli collocati dal 2° al 7° nodo; dopo l’ultimo grappolo, sempre nella stessa posizione, si distribuiscono i viticci o cirri che sono organi aventi uno sviluppo a spirale elicoidale e permettono l'ancoraggio del germoglio ad un supporto di qualsiasi natura. Il grappolo è costituito da un asse centrale detto rachide, sul quale si inseriscono ramificazioni laterali, dette racimoli, che portano i fiori.

Il fiore è ermafrodita nella maggior parte dei vitigni (varietà di vite), nel caso di alcune cultivar come Lambrusco di Sorbara, Picolit e Moscato rosa è femminile, quindi necessita di impollinazione incrociata di altre varietà, avviene sia mediante il vento che gli insetti pronubi (api), mentre è maschile nelle viti americane da portainnesto.

Il frutto è una bacca, detta anche acino, provvista di un peduncolo collegato ai racimoli; il colore varia, secondo il vitigno, dal verde al giallo, dal roseo al rosso-violaceo, dal nero o al nero-bluastro.

La buccia o epicarpo contiene parecchi tannini, sostanze aromatiche e coloranti; inoltre è ricoperta da una sostanza cerosa detta pruina. La polpa o mesocarpo è formata da grosse cellule sottili, dalle quali viene estratto il mosto molto zuccherino e contenente acidi organici. L’endocarpo di solito è costituito da 4 semi o vinaccioli che non si sono formati nelle uve apirene in quanto il frutto si è originato in assenza della fecondazione.


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Fenologia, clima e terreno

Il ciclo annuale della vite si distingue in vegetativo e riproduttivo. Il primo comprende le fasi di pianto, germogliamento, accrescimento dei germogli, la formazione delle foglie, la maturazione dei tralci e la caduta delle foglie; l’ultimo invece riguarda la differenziazione delle gemme, la fioritura, l’allegagione, l’accrescimento del frutto e la maturazione. In seguito viene fatta una descrizione sintetica di ogni stadio.

Pianto: inizia 1 mese prima del germogliamento e termina con la schiusura delle gemme; si crea una forte pressione osmotica radicale che provoca la fuoriuscita di un liquido trasparente dai tagli di potatura.

Germogliamento: nelle regioni meridionali ha inizio nella 2^ metà di marzo, al centro-nord a metà aprile. In questa fase, inizialmente, le foglioline formano una rosetta, con l’allungamento del germoglio si espandono e si evidenziano i grappolini.

Fioritura: avviene in un arco temporale che va dai primi di maggio agli inizi di giugno. Fra i vitigni più precoci e quelli più tardivi, nella stessa località, c'è in genere un ritardo di 15-25 giorni; dura da 9 a 21 giorni. Il polline feconda l’ovario mediante un’impollinazione incrociata, favorita dalla presenza di vento moderato e dall’azione di insetti pronubi come le api. Prima della fioritura può avvenire il fenomeno della filatura, che consiste nella trasformazione del grappolo in viticcio.

Allegagione: normalmente si estende dalla fine di maggio fino alla 2^ decade di giugno; avviene con la colatura, che si tratta di un fenomeno fisiologico consistente nella caduta dei fiori, in genere quelli non fecondati. Normalmente il 15-20% dei fiori diventano frutticini.

Periodo erbaceo: a partire dalla fioritura dura 20-40 giorni, rappresenta le prime fasi di ingrossamento dell’acino. La bacca comincia ad ingrandirsi per effetto di un’intensa attività di divisione cellulare, i frutti comunque rimangono duri, verdi, con basso contenuto zuccherino ed elevata acidità.

Formazione dei vinaccioli ed invaiatura: ha una durata che va dai 4 ai 30 giorni ed inizia una volta terminato il periodo erbaceo; si verifica un arresto nello sviluppo della bacca e si formano completamente i vinaccioli. Successivamente l’acino cambia colore, assumendo una colorazione gialla nelle uve bianche, mentre nelle uve nere sarà rosea o violetta, con formazione di pruina sulla buccia.

Agostamento: comincia a fine giugno per concludersi in agosto, più o meno contemporaneamente all’invaiatura; nei tralci si accumulano le sostanze di riserva e si verifica la lignificazione.

Maturazione: a seconda del vitigno si verifica a partire da inizio agosto fino ai primi di ottobre. L’acino si ingrossa nuovamente per effetto della distensione cellulare, accumulando gli zuccheri con una diminuzione del contenuto d’acqua e dell’acidità.

Caduta delle foglie e riposo vegetativo: ha inizio verso la fine di ottobre ed i primi di novembre, protraendosi fino alla ripresa vegetativa successiva; prima di cadere le foglie assumono una colorazione giallastra nei vitigni ad uva bianca e rossastra in quelli ad uva nera.

Si ritiene che sia possibile coltivare la vite quando la piovosità sia almeno di 700 mm/anno, dei quali almeno 400 mm sono necessari durante il periodo vegetativo. Il periodo critico è quello prossimo alla invaiatura (all’inizio dell’estate in genere sono ancora sufficienti le riserve idriche primaverili) quando la richiesta idrica delle bacche è massima e le precipitazioni carenti. In prossimità della raccolta un leggero stress idrico è positivo in quanto si accelera la perdita d’acqua dall’acino. L’esposizione ideale di un terreno è a sud perchè intercetterà una maggiore quota

di radiazione solare rispetto a uno pianeggiante; le esposizioni a Nord sono indicate in regioni caldo-aride, mentre quelle a Sud sono idonee in ambienti settentrionali o ad alta quota dove le temperature possono essere limitanti. La vite non è molto sensibile ai freddi invernali in fase di riposo, infatti la maggior parte delle cultivar in buone condizioni vegetative è in grado di resistere a temperature di – 15 °C durante il riposo invernale con un diverso grado di resistenza legato al vitigno a seconda della zona di origine. I fabbisogni termici sono crescenti dal germogliamento (8-10 °C), alla fioritura (18-22 °C) e fino all’invaiatura (22-26 °C); mentre diminuiscono alla maturazione (20-24 °C) e nel periodo della vendemmia (18-22 °C). I terreni ubicati in condizioni declivi sono ritenuti migliori di quelli posti in pianura in quanto, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, potrebbero comportare problemi di ristagni idrici, brinate primaverili dovute al flusso verso il basso di aria fredda ed attacchi parassitari. I suoli più idonei alla coltivazione della vite sono quelli alluvionali, vulcanici, autoctoni, di medio impasto e ben drenati; mentre i terreni meno adatti sono quelli compatti umidi, argillosi freddi, salsi, torbosi (si ottiene un vino di qualità scadente), con pH < 6 (troppo acido) o > 8,8 (troppo alcalino) e “stanchi” ossia suoli che hanno già ospitato un vigneto, sui quali si effettua un reimpianto.

In prossimità di mari, laghi e grossi fiumi i rischi di gelate sono minori perché l’escursione termica stagionale e giornaliera è più bassa. La vite è coltivata meglio in suoli profondi, drenanti e dotati di una buona ritenzione idrica, importante soprattutto in climi mediterranei caratterizzati da una scarsa piovosità estiva e qualora non ci sia la possibilità di intervenire con l’irrigazione.


Caratteristiche dei vitigni

I vitigni sono suddivisi in uve da vino, uve da tavola ed uve da essiccare che rivestono una minore importanza.

Le varietà da vino sono molto numerose e, per il loro utilizzo, in genere si fa riferimento ai disciplinari di produzione, per esempio D.O.C. (denominazione di origine controllata) ed I.G.T. (indicazione geografica tipica), ognuno dei quali interessa diverse zone, differenziandosi dagli altri; inoltre abbiamo uve da vino rosso, uve da vino bianco ed uve bianche adatte per gli spumanti.

Le cultivar da vino rosso più conosciute sono: Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Merlot (di origine francese però sono coltivate nelle più importanti aree viticole), Barbera, Dolcetto, Nebbiolo (diffuse soprattutto in Piemonte), Sangiovese, Montepulciano (caratteristici del centro Italia), i Lambruschi (tipici principalmente dell’Emilia), Canaiolo, Aleatico (diffusi in Toscana), Gaglioppo (vitigno tipico calabrese), Primitivo (coltivato soprattutto in provincia di Taranto), Calabrese e i Nerelli (tipiche varietà siciliane).

I vitigni da vino bianco più importanti sono: Chardonnay, i Pinots (varietà francesi, ormai coltivate a livello internazionale), Riesling (tedesco, molto diffuso al nord Italia), Tokai friulano (coltivato in Friuli ed in Veneto), Verdicchio (vitigno marchigiano), Catarrato bianco (varietà siciliana), i Moscati, le Malvasie ed i Trebbiani (cultivar presenti in tutta Italia, ma differiscono da zona a zona).

Vitigni bianchi come lo Chardonnay, i Pinots (bianco, grigio e nero), i Moscati, le Malvasie, i Trebbiani, il Riesling ed il Verdicchio si adattano alla spumantizzazione.

La coltivazione delle uve da tavola può essere attuata, con risultati soddisfacenti, solo in particolari condizioni che si ritrovano in aree più ristrette rispetto alle uve da vino. Rivestono molto interesse gli andamenti primaverile, estivo ed autunnale in quanto, nel primo caso, l’allegagione deve essere uniforme senza acinellatura (le bacche prive di semi rimangono piccole a maturazione), nella stagione estiva le uve a maturazione precoci vanno raccolte tempestivamente ed in autunno non si devono sviluppare marciumi sulle uve tardive. Condizioni ideali si hanno in zone a clima caldo e asciutto e con una buona ma non eccessiva disponibilità idrica nel suolo, sia naturale che per irrigazione. Nel caso di coltivazioni familiari, nei climi del nord Italia, è consigliabile limitare l’utilizzo alle varietà precoci, con maturazione entro la fine di agosto; questo perché quelle tardive non riescono a maturare e, spesso, sono soggette a marciumi.

Fra gli elementi che rivestono importanza per le uve da tavola vi sono le caratteristiche del grappolo (deve essere spargolo, quindi ramificato e poco compatto, regolare e piuttosto grosso) e in particolare dell’acino, che deve avere una grossa dimensione, con polpa croccante, di buon sapore e profumo, con buccia sottile, ma consistente per resistere ai trasporti. Negli ultimi 15-20 anni il mercato ha richiesto uve da tavola senza vinaccioli ma con buone qualità gustative; tuttora, mediante il miglioramento genetico, si cercano di ottenere uve apirene (senza semi) dotate di serbevolezza e di un buon sapore.

I vitigni da tavola più comuni sono: Baresana, Italia, Regina dei Vigneti, Alfonso Lavallèe, Primus, Cardinal, Michele Palieri, Pizzutello Bianco, Red Globe e Victoria. Le cultivar apirene principali sono: Centennial Seedless, Crimson Seedless, Sultanina, Sugraone ed Imperatrice.

La coltivazione di uve da essiccare, dal punto di vista economico, è realizzabile soltanto in climi a estate ed inizio autunno asciutti. Per ottenere una produzione di qualità sono preferibili uve apirene, a maturazione precoce, con acini che rimangono morbidi e non appiccicosi; le varietà utilizzate per l’essiccazione sono Sultanina, Corinto e Zibibbo.

I vitigni possono essere distinti tra loro grazie all’ampelografia, scienza che si occupa della descrizione morfologica delle specie e delle varietà di vite, inoltre studia le caratteristiche fenologiche, le attitudini colturali e tecnologiche (composizione delle bacche, zuccheri, aromi, tannini, sostanze coloranti ecc.). A causa del grande numero di cultivar disponibili, forse oltre 5000, sono state compilate delle vere e proprie schede ampelografiche; per differenziare tra loro le varietà vengono presi in considerazione i giovani germogli (caratteristiche dell’apice), le foglie (per esempio colore, numero di lobi, forma del lembo, presenza di peli sulla pagina inferiore), il sesso dei fiori, l’acino (forma e dimensione) ed il grappolo (taglia e compattezza).


Propagazione e portainnesti

La moltiplicazione della vite avviene per via vegetativa da diversi secoli, mentre quella per seme, caratterizzata da una notevole eterogeneità, è utilizzata esclusivamente nel miglioramento genetico.

A partire dal XIX secolo, in seguito alla diffusione della Vitis vinifera in tutto il mondo, in Europa, tramite materiale vegetale giunto dall’America, si è esteso a macchia d’olio un parassita (fillossera) che ha messo in ginocchio la viticoltura; questo perché la fillossera, nel tempo, provocava la distruzione delle radici della vite europea. Per superare questo ostacolo si è ricorsi all’utilizzo delle viti americane (Vitis riparia, Vitis rupestris e Vitis berlandieri) come portainnesto (porzione di pianta che dà origine all’apparato radicale), resistenti alla fillossera, incrociandole tra loro. I principali aspetti relativi all’impiego dei portainnesti sono: la resistenza alla fillossera, l’adattamento ambientale ed al terreno ( viti americane in Europa), la suscettibilità alla clorosi, l’affinità di innesto e la capacità di radicazione. È importante considerare che le specie americane tollerano meno delle europee la compattezza del terreno e un grado di umidità troppo elevato o al contrario troppo poco presente.

Se si è in condizioni di substrato povero e limitante il portainnesto deve essere in grado di poter assorbire e traslocare gli elementi nutrizionali in maniera sufficiente per lo sviluppo della varietà di Vitis vinifera innestata su di esso. Se viceversa il terreno è molto fertile il portainnesto deve limitare il flusso di sostanze nutritive allo scopo di contenere lo sviluppo vegetativo.

Il gruppo V. berlandieri X V. riparia è quello che ha ottenuto la maggior diffusione a livello mondiale, i portainnesti più importanti sono 420A, Kober 5BB e S.O.4.

Il 420A si adatta bene a terreni argillosi, compatti, asciutti, di media collina. Discreta affinità di innesto e resistenza al calcare e alla siccità, non è adatto al reimpianto.

Il Kober 5BB è un portainnesto vigoroso, molto adattabile e dotato di non elevata resistenza al calcare. S.O.4 è meno resistente del K5BB al calcare e un po’ meno vigoroso, è sensibile alle carenze di magnesio, compie un grande assorbimento di potassio.

I portainnesti del gruppo V. berlandieri X V. rupestris (57 RICHTER, 110 RICHTER, 140 RUGGERI, 775 PAULSEN, 779 PAULSEN e 1103 PAULSEN) hanno avuto diffusione in ambienti meridionali in quanto si adattano a terreni calcarei, salini e siccitosi; per contro possiedono uno scarso vigore vegetativo ed una scarsa capacità di radicazione.

Sul portainnesto viene innestata una porzione di materiale vegetale del vitigno desiderato della vite europea, l’unione dei due membri è effettuata in vivaio mediante diverse fasi (tecnica dell’innesto-talea), in seguito si ottengono le barbatelle che, una volta messe a dimora, cominceranno a produrre i frutti a partire dal 4° anno.


Sistemazioni del terreno

Una delle prime scelte da fare per la realizzazione dell’impianto di un vigneto è la disposizione dei filari nell’appezzamento, solitamente questa è in funzione della pendenza dello stesso e del tipo di terreno. Nelle forme di allevamento a controspalliera è consigliabile l’orientamento nord-sud dei filari, che consente, a differenza di quello est-ovest, una buona illuminazione sulle due pareti del filare; gli appezzamenti aventi esposizione a sud e sud ovest soddisfano meglio le esigenze di luce della specie. Nel caso di situazioni collinari occorre effettuare un adeguato smaltimento delle acque in eccesso limitando l’erosione, la quale aumenta man mano che cresce la pendenza. Nelle sistemazioni di pianura gli scopi sono lo smaltimento delle acque per evitare i ristagni idrici, creando fossi che seguano il gradiente della pendenza da un appezzamento all’altro, e la razionalizzazione della meccanizzazione, ottenendo campi più lunghi che larghi facilmente accessibili mediante idonee capezzagne.

Nelle aree collinari del centro Italia la sistemazione più frequente è quella a ritocchino, che consiste nell’orientare i filari lungo le linee di massima pendenza, facilitando le pratiche colturali del vigneto e lo scorrimento delle acque che avviene in maniera corretta (formazione di scoline seguendo la diagonale del campo). Lo svantaggio principale di questa sistemazione è l’erosione superficiale del suolo causata dalle acque che, a causa della pendenza, trascinano a valle notevoli quantità di terreno; per ridurre questo fenomeno è fondamentale adottare l’inerbimento dell’interfila del vigneto. Nel caso in cui le pendenze oltrepassano il 35-40% può essere eseguita la sistemazione a terrazzamenti o ciglionamenti, la quale consiste nel modificare il versante ricorrendo all’impiego di macchinari che muovono significative quantità di terra. Molto spesso in queste situazioni si ricorre all’utilizzo di strutture preformate come muri o reti per la realizzazione di sostegni che rendano i terrazzamenti stabili nel tempo.

La sistemazione a girapoggio è l’ideale per i terreni in cui le pendenze, anche se particolarmente elevate (45%), sono regolari (può riguardare i prati ed i pascoli permanenti); i filari sono disposti ortogonalmente alla linea di massima pendenza. Ogni singola unità colturale è delimitata da scoline, il cui percorso, detto anche a girapoggio, tende a seguire le curve di livello in modo da formare una spirale intorno al versante, generalmente la distanza tra una scolina e l’altra è di 4-5 m. Il vantaggio di questa sistemazione è l’efficace smaltimento delle acque, per contro è difficilmente eseguibile in quanto molto spesso gli appezzamenti sono irregolari e, con pendenze maggiori del 20%, aumenta il rischio di ribaltamento delle macchine. Il girapoggio non è attuabile su terreni ricchi di argille espandibili o rigonfiabili (per esempio come quelli marchigiani) in quanto essi, durante i periodi piovosi, sono soggetti a frane e smottamenti.


Impianto

Per la scelta delle barbatelle è importante ricorrere all’utilizzo di materiale vivaistico certificato, avente cartellino azzurro, al fine di avere migliori garanzie, sia genetiche (selezione clonale) che sanitarie; logicamente è più costoso del materiale standard (cartellino arancione) il quale non è stato sottoposto alla selezione clonale, quindi è meno affidabile del materiale certificato.

La scelta del vitigno è un aspetto principale tra quelli considerati al momento dell’impianto, essa dipende soprattutto dalla tradizione, variabile di zona in zona. Un’altra caratteristica da considerare sono i disciplinari delle denominazioni presenti sul territorio i quali regolamentano le varietà, le percentuali, il numero di ceppi per ettaro all’interno dei vigneti dai quali si otterranno vini a denominazione di origine. Bisogna considerare l’aromaticità dei diversi vitigni, il colore dell’acino e l’epoca di maturazione. In quest’ultimo caso la scelta viene effettuata in base alle condizioni climatiche della zona: solitamente è meglio evitare i vitigni troppo precoci (Chardonnay, Moscati, Pinots, Riesling, Dolcetto) negli ambienti troppo caldi e le cultivar tardive (Sangiovese, Montepulciano, Nebbiolo, Cabernet Franc e Sauvignon, Verdicchio) nei climi freddi.

Per effettuare la scelta di sesti d’impianto idonei bisogna tenere conto soprattutto delle forme di allevamento (illustrate nel paragrafo successivo), di solito, nel caso di sistemi a controspalliera, il sesto d’impianto prevalentemente adottato è 3 X 1,5 m con oltre 2200 piante ad ettaro; nello spazio compreso tra le file (interfila) sono necessari almeno 2,5 m al fine di consentire il transito dei mezzi meccanici che svolgono le operazioni colturali.

Bisogna inoltre effettuare un campionamento del terreno per svolgerne l’analisi, la quale fornisce indicazioni utili per la formulazione della concimazione d’impianto, il tipo di lavorazione da eseguire, sul materiale da utilizzare e sulla eventualità di apportare ammendanti al suolo.

Una volta effettuate tutte queste scelte bisogna svolgere le operazioni precedenti la messa a dimora quali:

-livellamento ed eventuale spietramento del terreno;

-lavorazione a doppio strato tramite ripuntatore che incide il terreno, non ribaltando zolle, fino ad 120 cm di profondità, seguita da una normale aratura di 30-50 cm in modo da non portare in superficie materiale inerte, cosa che si può verificare nell’esecuzione dello scasso (aratura profonda fino a 120 cm), oggi ancora molto diffuso;

-fertilizzazione d’impianto con letame in dosi di 500-600 q/ha e concimazione con fosforo e potassio con almeno 150-200 kg/ha ( anidride fosforica e ossido di potassio) di entrambi;

-nel caso di terreni soggetti a ristagno idrico, formazione di una rete scolante mediante fossi;

-affinamento del terreno;

-tracciamento dei sesti e picchettatura.

La messa a dimora delle barbatelle generalmente viene eseguita in novembre in modo tale che possano beneficiare delle piogge autunnali e da consentire lo sviluppo delle radici che saranno pronte in primavera per il germogliamento; nel caso di una piantumazione effettuata a marzo sarà necessario intervenire con irrigazioni di soccorso estive, mentre per impianti dopo tale periodo (fino al mese di giugno), si ricorre a materiale frigoconservato.

Al momento della messa a dimora della barbatella si accorciano le radici a 10 cm e si lasciano 2-3 gemme (del vitigno scelto), in tale occasione si può ricorrere all’inzaffardatura (immersione in una miscela di terra, sterco ed acqua, o anche sola acqua, questa operazione è indispensabile nel caso di impianti ritardati) al fine di reidratare il materiale vegetale.

Le barbatelle possono essere messe a dimora secondo diverse modalità quali: scavo di una buca 20 X 20 cm profonda 30 cm, a forchetta e con macchine trapiantatrici.

L’impianto a forchetta consiste nella bucatura del terreno con una specie di forchetta per poi inserire la barbatella con la radice lunga 3-4 cm.

La piantumazione con macchine trapiantatrici riduce sensibilmente l’impiego di manodopera; questi mezzi operano secondo un allineamento rettilineo dato da un raggio laser emesso da un trasmettitore in testa al campo e da un ricevitore posto sulla macchina, che dapprima esegue l’apertura del solco nel quale viene posizionata la barbatella, effettuando in seguito la chiusura del solco ed il compattamento del terreno ai lati; è fondamentale che il terreno sia allo stato di tempera e ben affinato.

Il punto d’innesto deve risultare sopra il livello del terreno altrimenti può emettere radici (affrancamento); in passato veniva coperto con un cumuletto di terra per evitare danni da freddo, da vento e da sole, oggi questa tecnica non si attua più in quanto il punto d’innesto è rivestito con la paraffina.

Inoltre si può eseguire la pacciamatura ricoprendo la fila interessata con del film plastico nero: questo favorisce un maggior sviluppo delle viti durante i primi anni dall’impianto; anche gli shelter (involucri di plastica) permettono un elevato sviluppo al 1° anno d’impianto esplicando una protezione contro organi meccanici, diserbanti, roditori e sviluppo infestanti.

Lo stesso anno dell’impianto, o l’anno successivo ad esso, viene costruita una robusta impalcatura per sostenere la parte aerea delle viti, per prima cosa si interrano per 50-90 cm i pali, (posti ogni 5-6 m l’uno dall’altro) che in genere hanno una lunghezza di 2,8-3 m e possono essere di legno, di metallo e di cemento armato (quelli in cemento precompresso sono i più usati grazie alla loro flessibilità e resistenza alle sollecitazioni). Successivamente si tende il primo filo e i tutori di ferro in prossimità delle piantine, fissati ad esso.

I fili di acciaio zincato (diametro da 1,5 a 2,7 mm) vengono generalmente posizionati su 3-4 piani, due per ogni piano (doppio filo di contenimento) successivo al primo al fine di contenere la vegetazione, la loro altezza varia con la forma di allevamento; essi stanno assumendo molta importanza in quanto riducono il numero dei tutori. I fili devono essere sempre in tensione, la quale si regola mediante tendifilo fissi o mobili; in testa ai filari ci sono ancore composte di piastre in cemento o di viti elicoidali in ferro che hanno il compito di dare stabilità all’impalcatura.

La vita economica di un vigneto dura 30 anni, il reimpianto sullo stesso appezzamento è una pratica sconsigliata in quanto possono manifestarsi fenomeni di stanchezza del terreno provocati da parassiti fungini (Armillaria) che causano marciumi radicali, infestazione di nematodi (Xiphinema e Meloidogine) e da sostanze tossiche emesse dalle radici stesse. La cosa migliore sarebbe aspettare qualche anno destinando il suolo a colture erbacee, altrimenti, nel caso di un reimpianto immediato, impiegare portainnesti resistenti al ristoppio (Salt creek). Se il precedente vigneto aveva sesti piuttosto ampi, il nuovo può essere impiantato a filari sfalsati per fare in modo che le giovani piantine siano posizionate nell’interfila del vecchio vigneto.

Tenere l’interfilare inerbito è importante perchè, oltre a favorire la riduzione dell’erosione (soprattutto relativamente alle sistemazioni a ritocchino), arricchisce il terreno di sostanza organica derivante sia dal rapido e naturale rinnovarsi delle radici delle erbe, sia dal materiale lasciato sul posto dalle operazioni meccaniche di trinciatura, permette lo svolgimento di eventuali pratiche colturali dopo una pioggia, cosa non possibile su un terreno argilloso lavorato.


Forme di allevamento

Tramite i sistemi di allevamento bisogna ottenere una superficie fogliare esposta elevata, una ridotta densità della chioma, uno sviluppo equilibrato dei germogli, una buona esposizione dei grappoli ed un equilibrio vegeto-produttivo (giusto rapporto tra germogli e grappoli); la scelta della forma più idonea dipende molto dalle condizioni ambientali in cui si opera, dal vitigno e dal livello di meccanizzazione desiderato. Nella nostra realtà viticola sono presenti numerose forme d’allevamento, molto differenti tra loro, le quali, secondo la distribuzione spaziale della vegetazione, possono essere a controspalliera, a chioma libera o a cortina, in volume e a tetto.

Le prime sono le più comuni, si suddividono in forme a tralcio rinnovato (guyot e capovolto o archetto) ed in sistemi a cordone permanente (cordone speronato e sylvoz).

Il guyot è una forma d’allevamento diffusa in tutta Italia, è caratteristica dei suoli collinari meno produttivi e più asciutti, nei quali la vite mostra una crescita abbastanza contenuta, che consiste, oltre al ceppo, in un capo a frutto di 7-8 gemme sul quale si verifica la produzione dell’anno, e, dalla parte opposta, di uno sperone di 2 gemme che produrrà l’anno successivo. L’impalcatura è formata da pali distanti sulla fila 5-6 m aventi un’altezza fuori terra di 1,8 m e collegati da tre piani di fili, il primo, di diametro 18 mm a 0,8 m da terra, sostiene il capo a frutto ed il ceppo, gli altri, di diametro 16 mm, sono doppi fili di contenimento posti rispettivamente a 0,4 e 0,5 m dal piano precedente ed hanno lo scopo di sostenere la vegetazione. I sesti d’impianto sulla fila variano da 0,8 a 1,5 m e fra le file da 2,5 a 3 m, con una densità compresa tra 2800 e 5000 viti/ha; il guyot ha una bassa carica di gemme ad ettaro, variabile tra 28000 e 40000.

L’archetto si tratta di un guyot modificato, è costituito dal ceppo, sul quale si inseriscono il capo a frutto piegato verso il basso e lo sperone; nei terreni più fertili e con vitigni vigorosi si lasciano due tralci formando il doppio capovolto. I pali portanti l’impalcatura hanno un’altezza fuori terra di 2-2,5 m, con distanza sulla fila di 5-6 m, il tronco arriva fino al 2° filo, di diametro 18 mm e posto ad un’altezza di 1,5 m, sul quale vengono piegati i capi a frutto e si legano al primo filo, avente un diametro di 16 mm e situato ad 1 m dal suolo; gli altri 3 piani di fili (doppi fili di contenimento) arrivano in cima al palo e sono distanti 0,3-0,4 m l’uno dall’altro. I sesti d’impianto sulla fila sono di 1,5 m e fra le file variano da 2,5 a 3 m, con una densità media di 2500 viti/ha; il doppio capovolto ha una medio-bassa carica di gemme/ha (intorno alle 50000). Inoltre la vegetazione non omogenea lungo il capo a frutto, con problemi di gestione della chioma e di difformità di maturazione delle uve.

Il cordone speronato è una forma di allevamento adatta a zone di non elevata fertilità in cui l’ambiente pedoclimatico porta ad un contenimento della vigoria (zone collinari in genere) oppure quando si utilizzino varietà a scarso sviluppo vegetativo, ma che presentano una buona fertilità nelle prime gemme del tralcio. Il sistema è costituito da un fusto verticale, all’altezza del primo filo prosegue come cordone permanente sul quale si inseriscono dorsalmente speroni di 2-4 gemme, opportunamente distanziati tra loro (15-20 cm). L’impalcatura è come quella del guyot, i sesti d’impianto sulla fila sono da 1 a 1.5 m e fra le file variano da 2,5 a 3 m, con un investimento compreso tra 2200 e 4000 viti/ha; il cordone speronato ha una media carica di gemme/ha, variabile tra 50000 e 80000.

Il sylvoz è una forma di allevamento che ha trovato diffusione negli ambienti freddo-umidi di pianura (soprattutto in Veneto) in quanto i terreni sono fertili nei quali le cultivar vigorose esprimono al meglio le loro potenzialità e viene favorita la captazione della luce da parte della parte aerea con benefici sulla fotosintesi, sul grado zuccherino del mosto e sulla differenziazione a fiore delle gemme. Risulta formato da un tronco verticale che, all’altezza e lungo il 2° filo, prosegue come cordone permanente sul quale si inseriscono dorsalmente capi a frutto di 7-8 gemme, opportunamente distanziati tra loro (15-20 cm), questi vengono piegati e legati al primo filo. La struttura dell’impalcatura è simile al doppio capovolto, in questo caso l’altezza del 2° filo, portante il cordone, è di 1,6-1,8 m, mentre quella del primo, ove si legano i tralci, è di 1-1,2 m; l’altezza complessiva della struttura raggiunge i 2,5-3 m. I sesti d’impianto sulla fila sono compresi tra 1,5 e 2,5 m, fra le file variano da 2,5 a 3 m, con un investimento compreso tra 1700 e 2500 viti/ha; il sylvoz ha una medio-alta carica di gemme/ha, variabile tra 80000 e 120000.

In Friuli è diffusa una variante del Sylvoz, detta Casarsa, in cui i capi a frutto sono liberi e quindi non c’è il primo filo, quindi la strutturazione è più semplice e la gestione meno onerosa rispetto al Sylvoz in quanto i tralci non necessitano di legature.

Tra i sistemi a chioma libera quello più importante è il G.D.C. (Geneva double courtain), studiato da un gruppo di lavoro negli Stati Uniti al fine di meccanizzare la potatura e la vendemmia; in Italia è frequente in Emilia-Romagna. È costituito da un fusto verticale che ad un’altezza di 1,7 m dal suolo prosegue con due cordoni permanenti speronati (speroni inseriti ventralmente sul cordone) distanziati 1,4 m sul piano orizzontale. Si ottiene la formazione di due cortine di vegetazione separate e distinte con una migliore intercettazione luminosa, una vegetazione meno folta ed un aumento della fertilità gemmaria; sono inoltre assenti i fili di contenimento della vegetazione. L’impalcatura è formata da pali distanti sulla fila 6 m l’uno dall’altro, con un’altezza di 1,8-2 m dal suolo, ad 1,6-1,7 m dal terreno sui pali sono fissati due bracci mobili verso l’alto, lunghi 0,7 m ciascuno, per aprire i cordoni, entrambi saranno sostenuti da un filo di diametro 20-22 mm. I sesti d’impianto tra le file sono di 4 m con lo scopo di permettere il passaggio di macchine vendemmiatrici, mentre sulla fila sono di 1-1,5 m con un investimento di 1600-2500 viti/ha; il G.D.C. ha una medio-alta carica di gemme/ha, variabile tra 80000 e 100000.

La classica forma di allevamento in volume è l’alberello, molto diffuso in Puglia, Sicilia e Sardegna in quanto il clima è caldo-arido con scarso sviluppo vegetativo delle viti; per questa ragione è attuabile anche ai limiti settentrionali di coltivazione della vite. Questo sistema è formato da un ceppo avente un’altezza di 0,3-0,4 m, sul quale si inseriscono 4 branche, ciascuna con due speroni lunghi 2-3 gemme, è caratterizzato dall’assenza di impalcature e non è meccanizzabile. I sesti d’impianto sono variabili tra 1 e 3 m sia tra le file che sulla fila, con una densità di 1100-10000 viti/ha; l’alberello con sesti 2 X 2 ha una bassa carica di gemme/ha (40000).

La principale forma d’allevamento a tetto è il tendone, impiegato in ambienti con elevata radiazione luminosa e bassa umidità dell’aria, infatti è molto diffuso in Abruzzo, Puglia, Campania e Sicilia e soprattutto per uve da tavola. Il sistema è costituito da un fusto verticale, sostenuto da un palo, dal quale, a 1,8-2 m dal suolo, i capi a frutto si dipartono ortogonalmente tra loro dando vita ad un tendone continuo. L’impalcatura è formata da pali sporgenti 2-2,2 m fuori dal terreno e, oltre alla vite, sostengono una rete di fili di ferro posta ad un’altezza di 2 m; i fili che collegano i tutori hanno un diametro di 20 mm (grande rete), mentre quelli che sostengono la nuova vegetazione (piccola rete) hanno un calibro inferiore. I sesti d’impianto formano un quadrato 2 X 2 m o 3 X 3 m, con un investimento variabile da 1100 a 2500 viti/ha; il tendone ha una medio-alta carica di gemme, variabile tra 70000 e 100000.

Un altro sistema di allevamento a tetto è la pergola, la quale si impiega in ambienti ad elevata fertilità o montano del centro - nord Italia (Trentino-Alto Adige, Romagna e nel veronese). Dal tronco, ad un’altezza di 1,6-1,9 m, si impalcano due capi a frutto di 8-12 gemme per vite. L’impalcatura è costituita da pali, la cui sommità si collega con dei listelli in legno che formano un tetto orizzontale (pergola veronese) o inclinato verso l’alto (pergola trentina), coprendo i grappoli dal forte irraggiamento estivo e permettendo un appoggio ai germogli in caso di vento. In zone collinari i sesti d’impianto sulla fila sono compresi tra 0,8 e 1 m, fra le file variano da 3 a 4 m (in pianura 6-8 m tra le file, sono pergole doppie), con un investimento compreso tra 2400 e 5000 viti/ha; la carica di gemme/ha è medio-alta, tra 80000 e 120000.


Potatura invernale

Con questa operazione viene asportata una quota ingente (80-95%) del legno prodotto nell’anno ed è opinione comune che ciò abbia un effetto benefico sulla vite e sulla sua capacità di sviluppo. In realtà la vite produce naturalmente senza che sia necessario ricorrere alla potatura, ma questa operazione colturale è la tecnica più economica per abbassare il numero di grappoli presenti su ciascuna pianta, migliorare la qualità delle uve, limitare la produzione rendendola regolare e costante, favorire una rapida messa a frutto, aumentare le dimensioni dei grappoli, ridurre la necessità del diradamento per il controllo della produzione. La potatura, qualora la produttività sia controllata unicamente in questo modo, deve lasciare un numero di gemme sufficiente a produrre la quantità di grappoli che la vite è in grado di portare a piena maturazione.

A partire dalla messa a dimora della barbatella fino al completamento della forma desiderata (2-4 anni) si esegue la potatura di allevamento, avente lo scopo di assicurare il più rapido sviluppo della struttura scheletrica della vite in rapporto al sistema prescelto ed ottenere la più rapida messa a frutto delle giovani piante; non si effettuano solo tagli, ma anche legature e posizionamenti. Durante i primi anni di vita le piantine necessitano di una massima superficie fogliare per ricostituire le riserve di carboidrati, di cimature per stimolare maggiormente la crescita e devono essere private di eventuali grappoli che sottraggono sostanze nutritive all’attività vegetativa.

Una volta ultimata la forma di allevamento prescelta viene svolta la potatura di produzione fino al termine della vita produttiva del vigneto. È la potatura invernale, detta anche potatura secca, eseguita annualmente durante il periodo di riposo vegetativo delle viti, ed ha i seguenti scopi: assicurare il mantenimento della forma e delle dimensioni delle singole viti per agevolare tutte le operazioni colturali, regolare il carico di gemme per ceppo, scegliere le migliori gemme in rapporto alla loro capacità produttiva, distribuire le gemme in maniera ottimale su ciascuna vite, ottenere la vegetazione di rinnovo nei punti desiderati, raggiungimento di equilibrio tra fase produttiva e vegetativa, della qualità desiderata e la lignificazione tralci.

Altre considerazioni utili utilizzate per valutare le condizioni di sviluppo dei tralci da utilizzare in potatura sono: adeguato livello di lignificazione, tralci con lunghezza internodo tipica della varietà, diametro medio del tralcio, posizione del tralcio idonea.

La potatura invernale va eseguita nel periodo che intercorre tra la caduta delle foglie e l’inizio della ripresa vegetativa; è quindi un intervento che può essere eseguito in un ampio arco di tempo, ma da personale qualificato. Considerando che potature precoci inducono un leggero anticipo del germogliamento con il problema delle gelate tardive, mentre potature tardive lo ritardano, è buona prassi agronomica potare prima i vitigni tardivi e poi quelli precoci.

Alcuni sistemi di allevamento hanno formazioni produttive che non superano le 3-4 gemme (speroni), quindi si tratta di una potatura corta, mentre nelle forme in cui il tralcio è raccorciato a 7-8 gemme si parla di potatura lunga; nel caso di cultivar dotate di una bassa fertilità delle gemme basali si adotta l’ultima modalità citata. Le varietà da tavola necessitano di una potatura molto lunga.

Di seguito viene brevemente illustrata la potatura di produzione del guyot e del cordone speronato che sono attualmente considerate come forme di allevamento più importanti.

Nel guyot si svolge una potatura mista, vista la presenza di uno sperone e di un capo a frutto.

Essa è effettuata sopprimendo il vecchio capo a frutto (taglio del passato), raccorciando il più alto dei tralci del vecchio sperone (taglio del presente a 7-8 gemme) e speronando a 2 gemme il più basso (taglio del futuro). Nei casi di viti che si innalzano in modo eccessivo si cerca di riabbassarle con un eventuale sarmento che spunta nella parte inferiore del ceppo.

Questo sistema fornisce produzioni soddisfacenti anche con vitigni a fertilità basale molto scarsa e relativa semplicità dell’intervento di potatura. Per contro, può incorrere in squilibri vegeto-produttivi legati a particolari posizionamenti del capo a frutto ed in difficoltà nell’adottare potatura meccanica (selezione, posizionamento e legatura); inoltre la mancanza delle riserve contenute nei cordoni permanenti può causare problemi in annate poco produttive e problemi di sovrapproduzione per forme espanse in anni favorevoli.

Nel cordone speronato vengono mantenuti speroni di 2-3 nodi su branche permanenti, quindi parliamo di potatura corta; per poterla applicare è necessaria una sufficiente fertilità delle gemme basali.

Dei due tralci dello sperone dell’anno precedente, il migliore e possibilmente il più basso si sperona a 2-3 gemme, mentre il superiore va soppresso. Un inconveniente riscontrabile con il tempo è la formazione di branche secondarie, perché gli speroni si allontanano a poco a poco dal cordone. In tal caso si cerca di ridurre la vegetazione, utilizzando qualche tralcio che spunta dal cordone stesso, in prossimità della branca da eliminare.

Tra i vantaggi, a parità di carico gemmario, il cordone speronato regolarizza il germogliamento, migliora l’uniformità di vegetazione, consente una maturazione più omogenea, permette di localizzare la fascia produttiva e vegetativa in aree definite della chioma, richiede tempi più ridotti di potatura rispetto a quella lunga; su questa forma di allevamento è eseguibile la potatura meccanica (macchine dotate di organi di taglio che speronano i tralci a 2-3 gemme mentre avanzano) che richiede 3-5 ore ad ettaro, abbassando i costi rispetto a quella manuale.


Gestione della chioma

Viene effettuata nel periodo primaverile estivo come potatura verde in quanto si svolge prevalentemente sugli organi verdi della vite. Interessa tutte le porzioni vegetative fino a prima della vendemmia con lo scopo di mantenere le dimensioni della chioma, assicurare alla vite non solo una superficie fogliare ampia, ma funzionale, evitare condizioni microclimatiche sfavorevoli intorno ai grappoli, migliorare la penetrazione dei trattamenti e la circolazione delle macchine. Le operazioni di potatura verde sono la spollonatura, la scacchiatura, la sfemminellatura, la legatura dei germogli, la cimatura, la defogliazione ed un eventuale diradamento dei grappoli.

La spollonatura consiste nell’eliminazione dei polloni, cioè dei germogli freschi che si sviluppano dal legno vecchio sul fusto della vite da gemme latenti o da vecchie porzioni nodali. L’utilità di tale operazione permette di eliminare organi che altrimenti rendevano fitta la chioma prendendo sopravvento.

La scacchiatura consiste nella soppressione dei germogli che pur uscendo dal capo a frutto sono sterili e non servono per la potatura dell’anno seguente, soprattutto nelle viti potate lunghe. Lo scopo di questa operazione è quello di evitare che la chioma si infittisca, va effettuata il più presto possibile (a germogliamento ancora in corso) quando i germogli sono ancora teneri. Nei casi di viti troppo deboli che presentano tutti i germogli fertili, per non indebolirle troppo, si elimina qualche germoglio uvifero; viceversa sempre nelle viti deboli con germogli del capo a frutto sterili, vengono eliminati parte di essi per favorire lo sviluppo dei germogli dello sperone e la buona formazione delle loro gemme.

La sfemminellatura consiste nell’eliminazione di nuovi germogli originatisi da gemme pronte, cioè nella soppressione totale delle femminelle.

Queste tre operazioni si effettuano, al più tardi, insieme alla legatura dei germogli, che è svolta per indirizzarli verso l’alto e convogliarli nei doppi fili di contenimento in modo da rendere possibile il transito delle macchine operatrici, favorire l’efficacia degli interventi antiparassitari e da evitare gli ombreggiamenti, i quali provocherebbero un calo della fotosintesi. Una volta convogliati i germogli nelle coppie di fili si procede alla eventuale legatura manuale o meccanica; questa operazione si attua con tralci lunghi circa 1 m.

La cimatura è una tecnica che permette l’asportazione di un tratto più o meno lungo dei germogli, siano esse femminelle basali che apici vegetativi. Questa pratica ha lo scopo di ridurre la vegetazione e rinnovare la parete fogliare, ottenendo l’emissione di nuove femminelle con la formazione di foglie fotosinteticamente attive nel periodo di maturazione dei grappoli, inoltre riduce l’affastellamento della vegetazione a livello dei grappoli, tende a limitare l’incidenza della muffa grigia. L’intervento va eseguito entro la fine di giugno, in modo da arrestare l’allungamento del giovane germoglio che avviene a spese delle sostanze di riserva, quindi la cimatura diminuisce il consumo di tali sostanze a vantaggio della produzione, inoltre, deviando l’afflusso di linfa dall’apice ai grappolini, ne migliora l’ingrossamento.

La defogliazione consiste nel sopprimere sui germogli fruttiferi un certo numero di foglie allo scopo di esporre meglio i grappoli al sole. E’ una pratica che si svolge in prevendemmia per le chiome troppo dense, sul tratto basale della fascia produttiva, per arieggiare ed esporre a radiazione indiretta i grappoli in modo da provocarne un aumento degli zuccheri e della colorazione grazie alla formazione degli antociani; ciò provoca un calo dell’acidità e un migliore stato sanitario delle uve. Le foglie basali eliminate dai singoli tralci durante l’ultimo periodo che precede la vendemmia non svolgono più un ruolo attivo nei riguardi della maturazione dell’uva e perciò possono essere soppresse; infatti quelle più vecchie di 120 giorni non contribuiscono più all’accumulo degli zuccheri.

Il diradamento dei grappoli è un’operazione che consiste nell’asportazione di una parte di grappoli, è eseguita solo manualmente, solitamente durante l’invaiatura, eliminando i grappoli più lontani del tralcio. Questa operazione è consigliata per cultivar a maturazione tardiva, ad acino grosso e molto produttive, viene effettuata sui vigneti in cui si mira ad ottenere produzioni pregiate e su uve da tavola. Altre operazioni di potatura verde sono la pettinatura, eseguita a fine giugno (tra la fioritura e l’allegagione) su sistemi di allevamento a G.D.C., che consiste nel disporre verso il basso i germogli lunghi 70-80 cm al fine di evitare affastellamenti di vegetazione, e la calatura mediante la quale si dispongono i grappoli verso il basso sulle forme a tendone.


Concimazione

Con una buona esecuzione di questa pratica colturale la pianta assorbe le sostanze nutritive necessarie per ottenere una buona produzione. Tramite la concimazione sono apportati al suolo i principali elementi minerali, fondamentali per lo sviluppo e la produzione delle piante, quali l’azoto, il fosforo e il potassio; di questi bisogna reintegrare le asportazioni annuali, rispettivamente 30-50 kg/ha, 5-10 kg/ha e 30-60 kg/ha (riferite a produzioni di uva di 100-150 q/ha).

L’azoto rientra in tutti i processi metabolici ed influenza lo sviluppo vegetativo della pianta e la maturazione dell’acino; favorisce anche la formazione delle gemme e l’allegagione. È un elemento molto mobile sia nel terreno che nella pianta, spostandosi verso le aree a maggior attività metabolica ed esposte alla luce. Un eccesso d’azoto provoca un peggioramento qualitativo dell’uva, un maggior vigore vegetativo ed una superiore suscettibilità ai parassiti; inoltre i tralci lignificano a fatica. Un’eventuale mancanza di azoto si traduce in una ridotta crescita della pianta e in una minore fruttificazione. La somministrazione di azoto va frazionata in tre interventi: dopo la raccolta, a ripresa vegetativa avvenuta e in seguito all’allegagione. In fase di allevamento si ha l’obiettivo di facilitare lo sviluppo generale delle barbatelle, in primavera, dopo il germogliamento, si effettua una concimazione localizzata intorno alla piantina con dosaggi di 50 g per pianta; va evitato il contatto diretto con la barbatella perché può provocare ustioni.

Il fosforo è importante in quanto favorisce il trasferimento di energia all’interno delle cellule e tra le parti della pianta, inoltre fornisce profumi al vino. È un elemento poco mobile nel terreno, mentre all’interno della pianta si sposta verso aree ad intensa attività metabolica. Il fosforo somministrato in dose eccessiva causa l’aumento di acidità negli acini e la riduzione dell’assimilabilità di alcuni microelementi (ferro, manganese e zinco), favorendo delle microcarenze. La mancanza di questo elemento danneggia la crescita delle viti, però è difficile che si verifichi. Il potassio regola i flussi d’acqua, lo scambio ionico e, specialmente, la traspirazione all’interno della pianta, infatti esercita un controllo sull’apertura degli stomi; è un elemento molto mobile all’interno della pianta e favorisce l’accumulo di zuccheri nelle bacche. Difficilmente si manifestano fenomeni di carenza, che incide poco sulla produzione in quantità, mentre fa diminuire sensibilmente la qualità dell’uva. Eccessi di potassio esplicano effetti negativi in terreni poveri di magnesio, per la concorrenza tra i due elementi, con probabile difficoltà di assorbimento di quest’ultimo. Scarse concentrazioni di calcio e magnesio in confronto al potassio causano il disseccamento del rachide del grappolo.

L’apporto principale di fosforo e potassio deriva dalla concimazione d’impianto, qualora fosse necessario intervenire annualmente nel periodo invernale per restituire le asportazioni.

In un vigneto si possono manifestare carenze di microelementi come ferro e boro, nel primo caso si verifica una clorosi fogliare che consiste in ingiallimenti con le nervature che rimangono verdi, la pianta ha una scarsa messa a frutto dei grappoli; il principale danno causato da una carenza di boro è l’acinellatura.

Una metodologia che permette di valutare lo stato nutrizionale del vigneto è la diagnostica fogliare, svolta mediante l’analisi chimica del contenuto fogliare di elementi nutritivi; inoltre è in grado di mettere in luce eventuali squilibri nei rapporti tra elementi. Il campionamento si fa in estate quando i flussi entro la vite si sono stabilizzati e i contenuti di azoto, fosforo e potassio sono correlati a quelli della primavera successiva in virtù del riciclo interno; i due momenti in cui effettuare il prelievo sono l’allegagione e l’invaiatura.


Irrigazione

La vite è una pianta che vegeta bene in condizioni di siccità, però è importante intervenire con l’irrigazione qualora questa fosse troppo prolungata. L’irrigazione è importante soprattutto nella fase di allevamento del vigneto e nei periodi estivi qualora si manifestassero condizioni di siccità che tendono a provocare una riduzione della fotosintesi ed un ritardo della maturazione con diminuzione qualitativa delle uve. Uno stress idrico significativo sulle piante può essere riconosciuto visivamente in campo nei casi in cui si notano gli apici dei germogli ed i viticci morti e le foglie basali esposte gialle o addirittura assenti. Dall’allegagione all’invaiatura un buon apporto idrico agisce positivamente sulla grandezza dell’acino. Invece, un leggero stress idrico nella fase finale di maturazione, limita la crescita vegetativa e determina un maggior trasporto dei carboidrati verso i grappoli, ottenendo un incremento complessivo della qualità soprattutto nei vini rossi, più colorati e con tannini meno astringenti.

Un accorgimento particolare merita la produzione dell’uva da tavola: oltre ai normali apporti idrici vengono somministrate delle sostanze nutritive, questa pratica è detta fertirrigazione. La strategia irrigua attualmente più diffusa è l’irrigazione a goccia, mediante la quale si distribuiscono moderatamente acqua e sostanze nutritive al fine di esercitare un controllo su stress idrico e stato nutrizionale a favore della qualità; in questo modo l’irrigazione la fertirrigazione vengono controllate meglio, pertanto lo sono di conseguenza anche la qualità e l’efficienza della concimazione.


Vendemmia

Il momento della vendemmia viene individuato seguendo l’andamento della maturazione nelle fasi di post invaiatura determinando i seguenti parametri: peso medio dei grappoli e delle bacche, grado zuccherino, pH ed acidità totale. Poiché sulla stessa pianta, i diversi grappoli non hanno mai lo stesso livello di maturazione, (quelli più vicini al ceppo hanno un maggior contenuto zuccherino rispetto a quelli che si trovano all’estremità del tralcio, i grappoli più maturi si trovano, in genere più lontani dal terreno), i prelievi si fanno su tutte le parti della pianta. Tenuto conto di questa eterogeneità, si effettuano, a distanza di 10 giorni, 3-4 campionamenti casuali di quantità sufficienti di uva raccogliendo 500 acini integri, facendo il peso medio delle bacche, in alcuni filari dello stesso appezzamento, a diversa esposizione, perché è importante per conoscere la situazione dell’appezzamento ed avere un archivio che consente di capire ciò che accade e prevedere la relazione tra quel campione e quelli storici. L’epoca ottimale della vendemmia si ritiene sia quella in cui il rapporto fra contenuto zuccherino ed acidità totale raggiunge il valore massimo; nel caso di vini spumanti e frizzanti la raccolta tende ad essere anticipata per ottenere un mosto con un’acidità di 8,5-9 g/l, espressa in acido tartarico, mentre per vini da invecchiamento è ritardata per avere un buon grado zuccherino.

La vendemmia manuale si effettua recidendo il grappolo alla base e ponendolo nei cesti o in recipienti che ne rispettino l’integrità, separando le uve in cattivo stato di sanità; è il tipo di raccolta più frequente e più costoso, mediamente la resa oraria di un vendemmiatore si aggira su 80-150 kg di uva raccolta. Successivamente l’uva viene trasportata rapidamente in modo da giungere in cantina il più possibile intatta utilizzando metabisolfito di potassio in polvere sul fondo dei recipienti. Vengono evitati recipienti di grandi dimensioni in cui gli strati inferiori verrebbero schiacciati dal peso di quelli superiori. Infatti è molto importante evitare che le uve vengano compresse e schiacciate durante il trasporto, perché questo favorirebbe eventuali fermentazioni che sono sempre pregiudizievoli per la qualità del prodotto. Nel caso in cui si mira ad ottenere produzioni di elevata qualità è meglio eseguire la raccolta in cassette che preservano maggiormente l’integrità dei grappoli.

La vendemmia meccanica si è diffusa maggiormente nei paesi esteri, in primis in Francia. Una macchina vendemmiatrice è composta da un apparato battitore che distacca gli acini e può funzionare a scuotimento verticale oppure orizzontale, un gruppo di ventilazione che toglie le foglie, un apparato intercettatore del prodotto distaccato e nastri trasportatori.

Le vendemmiatrici a scuotimento verticale hanno uno scuotitore a raggi che opera il distacco degli acini, lavorano su forme di allevamento a G.D.C.

Le macchine a scuotimento orizzontale sono dotate di aste libere o bloccate ai due lati che fanno cadere gli acini, sono vendemmiatrici scavallatrici (passano sopra il filare) che operano sulle controspalliere. I problemi che la meccanizzazione comporta riguardano soprattutto la rottura degli acini con la conseguente fuoriuscita di mosto, la contemporanea presenza di materiali vegetali come foglie e sarmenti, l’impossibilità di selezionare i grappoli in funzione dello stato di maturazione e della sanità, perdite di mosto sulla pianta per trafilamento e al suolo, danni alle foglie per necrosi e il rapido trasporto di una massa più o meno liquida, quindi il rischio di fermentazioni è più elevato rispetto alla vendemmia manuale. Le macchine vendemmiatrici sono da utilizzare in vigneti non troppo pendenti e con carattestiche d’impianto adeguate, dai pali precompressi alla larghezza delle capezzagne adeguate.


Vite - Vitis vinifera: I principali parassiti ed il loro controllo

I principali parassiti della vite, con i danni da essi provocati e le eventuali modalità di contenimento, si possono sintetizzare come segue.

Peronospora della vite (Plasmopara viticola): si tratta di un fungo che colpisce le foglie, i germogli, le infiorescenze ed i grappoli; favorito da umidità e piovosità elevata, temperature primaverili > 10 °C ed estive di 20-26 °C. Le infezioni primaverili si manifestano come macchie d’olio sulle foglie, mentre attacchi massicci estivi provocano macchie clorotiche disposte a mosaico e sul grappolo una deformazione ad “S” del rachide, gli acini subiscono una forte disidratazione, diventano violacei e disseccano. Gli attacchi ai grappoli sono gravi in quanto possono determinare cali quantitativi e qualitativi sulle uve. In primavera le infezioni (sulle foglie) hanno inizio quando si verificano contemporaneamente condizioni climatiche conosciute come la “regola dei tre dieci”, sintetizzate come segue: la temperatura minima dell’aria si stabilizza sui 10 °C, i germogli della vite raggiungono i 10 cm di lunghezza, la pioggia caduta nelle precedenti 24 ore deve essere pari ad almeno 10 millimetri.

Per contrastare la peronospora si ricorre all’impiego di fungicidi di copertura (prodotti a base di rame), dotati di un’azione preventiva, agiscono all’esterno dei tessuti e non sono in grado di bloccare le infezioni in atto, e di fungicidi sistemici, che esplicano un’azione curativa: vengono infatti assorbiti dalla pianta, evitando il dilavamento e traslocati in tutte le sue parti. Generalmente si utilizzano insieme in quanto i prodotti sistemici, se applicati da soli o con una frequenza esagerata, possono instaurare fenomeni di resistenza nel fungo.

Una volta verificatesi le condizioni sopra descritte si può effettuare il primo trattamento, utilizzando solo prodotti di copertura. Soprattutto nel caso di abbondanti precipitazioni, a partire dalla prefioritura (fine maggio) fino all’allegagione vanno eseguiti i trattamenti con entrambe le tipologie di fungicida ogni 15 giorni; ulteriori interventi si possono svolgere mediante prodotti rameici che favoriscono la maturazione del legno e contengono il lussureggiamento vegetativo.

Oidio o mal bianco della vite (Uncinula necator): è un fungo che colpisce le foglie, i germogli, i tralci ed i grappoli; favorito da elevata umidità, temperature ottimali di 25-26 °C e da assenza di bagnatura. Sulle foglie si notano chiazze bianco-grigiastre, mentre dopo l’allegagione sugli acini è presente il micelio bianco del patogeno che causa necrosi nella bacca, la quale suberifica e si può spaccare, favorendo altre malattie; inoltre, se colpisce i giovani grappolini in fase di prefioritura, provoca la colatura dei fiori e la necrosi dell’intero grappolino.

L’oidio è una malattia tipica delle annate calde e secche, inoltre esplica una maggior pericolosità in ambienti collinari. Il patogeno va tenuto sotto controllo tra le fasi di formazione dei grappoli (fioritura e allegagione) fino all’invaiatura; anche in questo caso si ricorre a fungicidi di copertura (zolfo bagnabile) e sistemici effettuando i trattamenti abbinando prodotti antiperonosporici ed antioidici in quanto si mescolano bene tra loro ed entrambe le malattie possono colpire nello stesso periodo. Nelle zone in cui l’oidio è più pericoloso della peronospora si eseguono ulteriori interventi a base di zolfo in polvere.

Muffa grigia o botrite (Botrytis cinerea): fungo che si insedia principalmente sui grappoli dall’invaiatura alla completa maturazione; favorito da temperature sui 15-25 °C ed alta umidità. Il patogeno penetra in prossimità di lesioni sugli acini, estendendosi sull’intero grappolo e manifestandosi come una muffa grigia. I grappoli marciscono ed il prodotto ha una qualità scadente, dando luogo a vini poco stabili. Per contrastare il patogeno è importante tenere sotto controllo gli altri parassiti della vite (oidio, peronospora e tignole) che possono determinare lesioni (ottima via d’ingresso per la botrite). Un’altra modalità consiste nell’impiego di fungicidi antibotritici specifici, il primo all’invaiatura ed il secondo 20 giorni prima della raccolta, al fine di raggiungere questa fase con l’uva sana.

Mal dell’esca o apoplessia: malattia causata da una serie di funghi che si instaurano sul legno; favorita dalla presenza di lesioni e di tessuti infetti, da cui infetta quelli sani. Sulle foglie, tra le nervature, si nota una clorosi giallastra marcata al cui centro vi sono delle macchie necrotiche rossastre, mentre attacchi su tralci e legno determinano una disgregazione dei tessuti legnosi che necrotizzano diventando bruni, per poi assumere una colorazione chiara ed una consistenza spugnosa e friabile (tessuti cariati). La pianta può morire qualche anno dopo l’insediamento di questi patogeni. Questa malattia va controllata basandosi su interventi preventivi quali: impiego di materiale vegetale sano e controllato, eliminazione delle piante compromesse, individuazione di piante con i primi sintomi evitando l’utilizzo degli stessi arnesi di taglio durante la potatura invernale, eseguire tagli di risanamento allevando la parte legnosa sana ed eliminando quella infetta.

Escoriosi (Phomopsis viticola): è un fungo che colpisce soprattutto germogli e tralci provocando delle lesioni od escoriazioni necrotiche, favorito da primavere molto umide e piovose. I capi a frutto presentano tessuti più deboli, una minor vigoria ed una vegetazione stentata, tutto ciò si traduce in un calo di produzione. È importante eliminare i tralci colpiti con la potatura secca, in seguito al germogliamento ricorrere ai fungicidi impiegati contro la peronospora.

Tumore batterico del colletto e delle radici (Agrobacterium tumefaciens): è un batterio che, grazie alla presenza di lesioni, si insedia a livello del colletto ma soprattutto delle radici, causando dei tumori (cellule vegetali che, stimolate dal patogeno, si moltiplicano in modo disorganizzato ed anormale, aumentando di volume) che confluiscono, si aggregano e significano per la morte dei tessuti infetti. Le radici colpite hanno una minor capacità d’assorbimento, inoltre vengono alterati i tessuti conduttori del colletto e del fusto. Per ridurre al minimo la presenza del batterio impiegare materiale vegetale sano, evitare lesioni alle radici con i mezzi di lavorazione ed eventualmente ricorrere all’immersione di radici e colletto delle piante, prima della messa a dimora, in una sospensione di cellule vive di Agrobacterium radiobacter (ceppo K84), considerato un ottimo inibitore di questo patogeno.

Flavescenza dorata: è un virus trasmesso da un insetto (Scaphoideus titanus), può provocare: un arresto improvviso dell’attività vegetativa, curvature dei germogli, mancata lignificazione e consistenza gommosa dei tralci, arrotolamento delle foglie con colorazione giallastra su uve bianche e con riflessi rosso-violacei su uve nere, mancato ingrossamento del grappolo con disseccamento degli acini. I sintomi appena citati possono interrompersi, con conseguente ripresa della crescita, nei casi in cui il patogeno sia a uno stato latente oppure che si sia trasformato in un ceppo meno virulento. L’obiettivo è quello di tenere sotto controllo il vettore, intervenendo a metà giugno contro le forme giovanili; le piante infette vanno eliminate ed, inoltre, una buona prevenzione consiste nell’impiego di vitigni resistenti.

Legno riccio: è un virus trasmesso da nematodi, compare specialmente su viti innestate sui portainnesti sensibili; si manifesta con un notevole ingrossamento a livello del punto d’innesto, con successive alterazioni dei tessuti conduttori. In questo caso delle buone pratiche agronomiche consistono nell’evitare il reimpianto immediato, oppure nell’utilizzare portainnesti resistenti ai nematodi.

Tignoletta della vite (Lobesia botrana): è un insetto che colpisce le infiorescenze (1^ generazione) ed i grappoli (2^ generazione). Le larve della 2^ generazione scavano gallerie all’interno degli acini che avvizziscono ed imbruniscono; nelle regioni centro-meridionali compie una 3^ generazione a fine estate, quando i grappoli sono in fase di maturazione, e si rende molto pericolosa in quanto le ferite causate favoriscono attacchi di muffa grigia.

Tignola della vite (Eupoecilia ambiguella): a differenza della tignoletta la sua diffusione è limitata alle zone dell’Italia settentrionale, nelle quali svolge due generazioni; la 2^ generazione si può protrarre fino ad ottobre.

La lotta contro le tignole si basa sul minimo ricorso ai trattamenti insetticidi, perché tendono a favorire le infestazioni di acari fitofagi, eliminando i nemici naturali. Per il monitoraggio si utilizzano due trappole a feromoni ad ettaro (ad inizio aprile), controllandole 2-3 volte la settimana; se si catturano più di 15-20 adulti di tignoletta e oltre 10 adulti di tignola si interviene. Il campionamento va effettuato su 100 grappoli, se l’infestazione di larve di 2^ generazione supera il 5% bisogna intervenire. Prima dell’entrata delle larve negli acini si possono distribuire formulati biologici a base di Bacillus thuringiensis subsp. Kurstaki; inoltre vi sono anche diversi nemici naturali da privilegiare.


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